Stefanucci racconta se stesso

Nato per il presepio!

Angelo Stefanucci
Angelo Stefanucci

Da qualche tempo era stato esortato da molti amici a narrare come fosse sorta, sviluppata, ingigantita in lui l’idea del presepismo e come ne covasse il sacro fuoco; ma il pensiero di disporre con ordine l’abbondante materia, di parlare di sé, della sua vita, non lo lusingava.

Ciascuno ha i propri angolini riposti degli affetti e delle memorie; i sacri e sottilmente melanconici tabù del passato su cui ama riandare soltanto tra sé e sé.

Ma, alla soglia dei sessanta anni, accusati con tutti gli onori, e quando il cammino più lungo è stato percorso ed un’occhiata al calendario della nascita fa filtrare come sabbia di clessidra il perenne pensiero che la vicenda terrena sta per concludersi ed il passaggio nel misterioso e silente regno delle ombre è prossimo, si può sostare, raccogliersi e come un avolo affettuoso alla attonita nidiata dei nipotini, annaspando in una sequenza tumultuaria di episodi, di apparizioni e di ricordi, iniziare l’autobiografia in chiave un po’ fantastica, un po’ eroica ed un poco edificante.

Il nonno, di Subiaco, era capo giardiniere nel palazzo pontificio del Quirinale e spesso incaricava il figlio decenne di recare a Maria Sofia, seconda moglie di Ferdinando IV ed ultima, spodestata regina di Napoli ospite di Pio IX, l’omaggio di bellissime gardenie infilate su un’arancia. La giovane ed avvenente sovrana rideva di gusto e gradiva l’omaggio storpiando a suo modo, lei bavarese, il dialetto napoletano con un «O qualione zze fa siempre cchiu belo» e gli donava un marengo d’oro che, per il colore del metallo, il nonno chiamava occhio di civetta. Quando, nel 1870, entrarono a Roma i piemontesi e gli dissero se voleva passare ai servigi del re Vittorio, il nonno coerentemente rispose: «Ho servito un sovrano per tanti anni e non voglio servirne altri». E se ne andò dignitosamente in pensione.

Lui era nato alle cinque e un quarto del sette settembre 1905, che era di giovedì, sotto la costellazione propiziatrice della Vergine, in piazza Foro Traiano, in un’antica casa nel cuore della vecchia Roma sette/ottocentesca a lui tanto cara e perdutamente rimpianta, demolita una trentina d’anni addietro per aprire il varco all’ambiziosa via dell’Impero. Dopo pochi anni, la sua umile famiglia, papalina di vecchio stampo, si era trasferita al primo piano di un’altra vecchia abitazione, in Via delle Muratte, al numero 92. Ad un passo, la fontana di Trevi.
I vecchi narravano di misteriosi fenomeni che, in altri tempi, a mezzanotte, facevano tremare la casa dalle fondamenta; e v’era chi parlava con terrore di anime implacate di defunti uccisi di morte violenta.

Nei caldi vesperi estivi, dolci di luci e di ombre, dalle finestre aperte entrava il fresco romorio dell’acqua che precipitava nella gigantesca vasca ed al tramonto, come fuochi fatui proprio all’altezza della camera da letto, passavan le aste coi cerini dei lampionai che accendevano i fanali a gas. Salivano le colorite frasi che si scagliavano nelle furibonde contese i terribili regazzini romani: A Giggè, va a’ morì ammazzato! cui faceva da immancabile contrappunto: Ma l’anima de li m… tua! E de tu’ nonno ‘n cariola! Sui sampietrini rimbombava lo sferragliamento dei tram a cavalli e dei carretti a vino, quasi un accompagnamento al canto “Tripoli, bel suol d’amore!” che la bellissima «sciantosa» romagnola Gea della Garisenda aveva diffuso su tutti i palcoscenici dei varieté italiani per celebrare la recente conquista africana, e che cantavano un po’ tutti.

Una sera il babbo (esercitava un mestiere oggi scomparso, il sellaio) annunciò con quel suo fare di vero “romano de core”, arguto e scanzonato, che l’indomani si sarebbe fatto il Presepio. Ad otto anni, un alunno della terza elementare, anche se maggiore di tre fratelli ed una sorellina, non è in grado di comprendere tutto; e poi a’ quei tempi… (…e pensare che la mamma si chiamava Maria, il babbo Giuseppe…). Presepio era una parola oscura ed incomprensibile, che per tutto il giorno gli ronzò nella testa e lo indusse ad attendere, con ansia, la vigilia di quel Natale, una sera nebbiosa, dell’anno di grazia 1913. Già da alcuni giorni le nenie delle cornamuse portavano per le strade le voci malinconiche dei ricordi, delle miti speranze, del pianto sommesso di tutte le cose.

Il babbo giunse carico di involti; era reduce da piazza Navona ed aveva acquistato tutto l’occorrente: la tipica capanna romana, i pupazzi di creta colorata, le pecorelle, il muschio verde ed odoroso.

In un grande stanzone buio, di passaggio, privo di finestre, vi era un ampio tavolo; ai lati il babbo inchiodò quattro stecche di legno sulle quali distese un foglio di carta turchina su cui aveva appiccicato enormi stelle d’argento. E questo fu il firmamento. Poi, attorno alla capanna, tracciò con un po’ di sabbia e brecciolina le stradine convergenti verso il Bambino e le popolò di pastori e pecorine con largo ricorso al buonsenso ed al personale gusto più che alla prospettiva ed alla natura; nella creta molle, ricoperta di muschio, piantò i ramoscelli freschi di bosso e ginepro che imitavano, approssimativamente, il regno vegetale.

Lo specchio della barba si trasformò in un placido laghetto con pescatore munito di canna con pesce appeso e ochette natanti.
Dinanzi alla culla divina fu acceso un moccolotto – non v’era ancora in casa l’elettricità e si faceva ricorso ai lumi a petrolio per l’illuminazione – ed il Presepio fu pronto.

Nel cerchio magico, il battito della guizzante fiammella sulle figurine sembrava animarle; i bimbi, il babbo, la dolce mamma, una sartina venuta di Romagna, due anziane zie sorelle del babbo, tutti inginocchiati con gli occhi fissi sul piccolo Gesù sorridente e sereno, intonarono il Rosario che allora si recitava in quasi tutte le famiglie. Sembrava che Dio stesso fosse disceso in un azzurro respiro di cielo, portato sulle ali delle campane con il primo doppio della mezzanotte. Fu quello, dunque, il suo primo Presepio.

Il ricordo di quella sera non l’abbondonò più; come poteva, sfuggendo alla sorveglianza materna, correva nelle chiese vicine per ammirare i Presepi ma soprattutto vederli costruire anche se da pecioni, e restava lì, ore ed ore, a contemplarli, a divorarli con gli occhi, come esercitassero su lui il sortilegio del primo e più grande degli incantesimi, quasi orbitasse nel vuoto, finché giungeva la mamma, allarmata per la scomparsa, che rifilandogli alcuni potenti schiaffoni (leccamuffi, alla romana), rompeva l’incanto e lo richiamava alla realtà.

In quei tempi i privati appendevano grandi corone e festoni di mortella sulle porte delle case e spargevano foglie d’alloro in terra per indicare che la visita del Presepio era consentita al pubblico.

Ma fu uno spettacolo senza pari, offertogli nel Natale 1921 nella chiesa del Crocifisso in piazza dell’Oratorio, che doveva mutare, e per sempre, il suo sentimento verso il Presepio. Un cospicuo gruppo di architetti, pittori, scultori, i nomi più belli e conosciuti dell’ambiente artistico romano, compose il famoso Presepio degli Artisti.

Nel centro troneggiava un superbo rudere della Nascita con un immenso corteggio di figure napoletane settecentesche; a destra era fedelmente riprodotto un vicolo partenopeo con la taverna, il mercato ed un brulicare di folla. A sinistra, infine, un lembo d’Oriente con l’arrivo delle carovane dei Magi. Luce, colore, vegetazione, vivezza d’immagini, creavano una scena da fiaba, completata da una meravigliosa cometa di vetro iridato, soffiata appositamente a Murano e mai più vista così bella, che dardeggiava i suoi raggi sul Bimbo Gesù.

C’era una gran pace azzurra in quel cielo e grandi stelle che sembravano in continua effervescenza. Quel Presepio con le sue luci, i suoi colori, gli inimitabili pastori, le piante e la vegetazione dai verdi unici, gli dischiuse un orizzonte senza fine. Non era più, dunque, il Presepio un trastullo da ragazzi con la sola caratteristica che si giocava soltanto per Natale anziché tutto l’anno; ma una cosa straordinariamente seria, anzi sacrale e culturale, se un così eletto gruppo di artisti vi avea posto mano. Ed altri pensieri frullavano vorticosamente nella sua mente: dinanzi al Presepio, a quel Presepio rivestito di nobili forme d’arte, la gente rimaneva muta, in contemplazione, con gli occhi lucidi.

Signori «importanti» e, più in là, operai in tuta ed autisti, impiegati, professori, studentesse, uomini colti, nonne, fidanzate, uomini ignoranti riguardavano senza sosta con lo stesso interesse; e v’era chi piangeva e si beveva le lacrime. Dunque, qualcosa doveva pur risvegliare quello spettacolo nell’animo, ricordi ancestrali di fanciullezza e di bontà. Ecco: la bontà. A questo si doveva tendere, a lavorare perché tutti i costruttori di Presepi rivestissero la loro opera d’arte con la fede, perché cementasse l’unione delle famiglie, migliorasse gli uomini nei loro istinti e nei loro rancori, infine ingentilisse le Nazioni.

L’immagine cara di quel Bambino, nudo sulla paglia, segno vivente d’umiltà, era una calamita ed insieme una potente molla della bontà e della mitezza d’animo: un grande ausilio, infine, all’apostolato della Chiesa ed un mezzo gentile ed originale per affratellare le classi sociali sempre più divise da ideologie che scavavano soltanto sentimenti di odio.

Il Presepio avrebbe fatto tornare il Natale cristiano, che un tempo non aveva bisogno di luminarie, di addobbi, di tante mascherate di devozione, di carità, di alberi nelle case e nelle piazze. Ognuno sentiva la festa nel suo cuore.
Cominciò a costruire Presepi, con pochi mezzi di fortuna, avvalendosi di figurine che ritagliava dai giornaletti illustrati, o dei pupazzi economici, cercando sempre di dare alla costruzione quel tocco d’Oriente che ha sempre costituito la sua passione. Al proprio Presepio casalingo, che simile a colata lavica rubava ogni anno spazio maggiore fino ad occupare intere stanze, doveva sommarne altri per parenti ed amici. Correva qua e là vero tipo unico dall’estro bizzarro, carico di involti, abolendo quando poteva la cravatta e trasandato come fu sempre nella vita.

L’idea non gli dava tregua e non era limitata al periodo natalizio, ma si espandeva in tutto l’arco dell’anno e lo induceva, nei mesi estivi, a raccogliere sabbia dorata e pietruzze levigate dal mare per il Presepio. Un bel giorno la casa non fu più sufficiente; e a partire dal Natale 1922 iniziò i suoi Presepi in numerose chiese romane finché si stabilì in quella di San Bernardino in Via Panisperna, dove per tre lustri consecutivi, costruì il più grande Presepio di Roma che raggiungeva, anzi superava, i cento metri quadrati. Ed intanto raccoglieva dèpliants, migliaia di foto, ricordi presepistici, manifesti, antiche monete del tempo di Cristo, carte geografiche con il presunto itinerario dei Magi, ovunque ne trovasse. Ma soprattuto figure, costruendone anche personalmente, perfino a grandezza naturale, per animare i suoi Presepi.

Un giorno dell’estate 1934, trovandosi a Monaco di Baviera per assistere allo spettacolo della famosa Passione di Oberammergau (altra “passione” quella per la raffigurazione della Passione di Cristo, congiunta ad una vera frenesia per le opere liriche, forse alimentata dalle sue antiche esperienze filodrammatiche), apprese dai Salesiani della cospiscua raccolta di Presepi custoditi con tenera cura nel Nationalmuseum.

Poco dopo varcava per la prima volta, nei trent’anni successivi lo doveva rivarcare diecine di volte, quel magico cancello ed ascendeva lo scalone (prima della guerra le collezioni erano esposte nelle soffitte del Museo). Quel che provò dinanzi ai lunghi corridoi bui in cui si stagliavano i rettangoli luminosi dei Presepi non può dirsi a parole. Sembrava impossibile che, al di là delle vetrine, potessero esser reali quegli incredibili panorami che toglievano il fiato.

Le lontane città bibliche emergevano dalle pianure e si stagliavano contro catene di montagne. I laghi ed i fiumi sembravano rispecchiare, nelle onde silenziose, tutta l’atmosfera mistica delle parabole evangeliche. E poi quelle collezioni straordinarie di figure del banchiere Max Schmederer, quelle costruzioni, quelle piante, quegli animali..,; il custode, borbottando in tedesco, gli fece intendere, a gesti, che si doveva chiudere. Erano trascorse circa quattro ore, e neanche se ne era accorto…

All’uscita acquistò un volumetto; dunque esisteva una bibliografia oltre ai soliti frammenti sul Presepio napoletano, ligure, siciliano o bolognese, di terza e quarta mano, rimasticati su giornali e riviste in occasione del Natale. Doveva leggere, sapere tutto. Effettuare ricerche storiche, indagare sulle origini, sullo sviluppo universale, sugli artisti, sugli aspetti più impensanti ed imprevedibili, sulla perenne vitalità del Presepio.

La frequenza delle biblioteche, strappando a fatica ritagli di tempo all’impiego, la visita ai Musei: S. Martino di Napoli, dei Presepi a Bressanone, della Villetta di Negro a Genova, Pitré a Palermo, Pepoli a Trapani, Bellomo a Siracusa non diedero grandi frutti. Dopo lunga, inutile ricerca, dovette constatare, con meraviglia, l’inesistenza, in Italia, di un’opera organica sull’argomento.

Decise, allora, di scrivere lui stesso una Storia del Presepio per fornirla da sé a sé stesso e perché non ce n’era un’altra. Cominciò, anzitutto, a procurarsi tutta la letteratura mondiale, esistente, con fatica, perché in molti casi si trattava di opere esaurite da decenni. Un po’ con la tenacia, un poco puntando sulle amicizie e finalmente con un po’ di fortuna riuscì, in alcuni anni, a riunire quasi tutta la bibliografia esistente, dal primo volumetto del 1826, che mano mano aggiornava al punto che oggi possiede la più completa biblioteca presepistica del mondo.

Poi, nel Natale 1937, tracciò il piano dell’opera. Scrisse ai Vescovi ed ai Soprintendenti alle Belle Arti italiani, agli studiosi di tradizioni popolari e di demopsicologia di tutta Europa. Si creò una fittissima rete di corrispondenza che raggiunse centinaia di lettere e che (si era ormai in pieno clima di una guerra corrusca e orrida), per i diversi luoghi di provenienza e per l’intensità, soprattutto dall’estero, sollevò perfino dei sospetti da parte della censura di guerra che aprì un’inchiesta.

Suscitò, attraverso la penna, vasto entusiasmo per il Presepio, e gli stessi studiosi, quelli cortesi, diedero mano alla vanga delle ricerche e gli archivi, finalmente esplorati, rivelarono nuovi, eccezionali documenti. Le schede aumentavano; il materiale veniva ordinato non soltanto accumulando dati e fatti, ma scorgendovi il nesso.

Finalmente il manoscritto fu pronto per essere dato alle stampe. Il libro di seicento pagine e trecento illustrazioni, senza pretese, vide la luce nella primavera del 1944 quando ormai il mondo andava coprendosi tutto di fuoco e di sangue, era stato tolto il guinzaglio alla violenza, la libertà dei popoli colata a picco e l’umanità presa a calci.

Nel generale turbamento degli spiriti, quel libro modesto e senza pretese fu come una piccola luce di speranza nella caligine che avvolgeva la terra e venne accolto con simpatia, ed affetto. Il Pontefice Pio XII, al quale l’offrì in una udienza privata, lo lodò e disse che avrebbe fatto del bene.

Riviste e quotidiani di tutto il mondo cominciarono ad occuparsi di lui, dal Time di New York a Reflector di Buenos Aires, da Destino di Barcellona al General Anzeiger di Köln, sempre, immancabilmente, storpiandone il cognome, e definendolo, volta a volta, viaggiatore meteorico del presepio, pioniere del presepio, l’amico italiano del presepio.

Nella conclusione del libro aveva lanciato un appello affinché gli uomini di buona volontà si fossero uniti, dando vita ad una Associazione fra gli amici italiani del Presepio. Come sarebbe stato accolto il suo invito? Vi furono degli aficionados, pochi in realtà, che si fecero avanti, e l’Associazione Italiana Amici del Presepio divenne realtà nel novembre 1953, e nel quadro generale del presepismo europeo, anche in occasioni impegnative, recò il suo fattivo contributo.

L’Associazione crede nella personalità presepista come valore primario e perciò ha puntato e punta attraverso convegni, congressi, mostre, corsi, conferenze ed articoli del Bollettino, sulla formazione artistica del presepista perfetto; si propone di cooperare alla sua elevazione morale ispirandosi alla visione cristiana dell’uomo, ed opera questa formazione attraverso la forma associativa, cioè l’incontro, il più spesso possibile, tra presepisti, la loro collaborazione, il loro colloquio.

Intanto veniva allacciando amicizie che, attraverso il tempo, divennero tenacissime, con austriaci, tedeschi ma specialmente spagnoli. Nutrì meraviglia ed ammirazione per la sede di Barcellona degli Amici catalani, in Calle Canuda, per l’ordine, la disposizione, la ricchezza del materiale raro e pregiato raccolto e collocato nelle vetrine della sua sede.

Sapeva quanto le esperienze contino nella vita e volle arricchirsi di singolari cognizioni. Partecipò a molte assemblee, riunioni, convegni; visitò esposizioni. Volle conoscere più dappresso vita, consuetudini, riviste, tecniche, statuti, metodi di lavoro e di organizzazione. Tenne conferenze, scrisse decine di articoli per giornali e riviste; ebbe lunghi colloqui, vivaci discussioni, garbatissime polemiche con i più insigni presepisti del mondo ai quali tanto deve di consolazione e toccante umanità.

Ma specialmente dai ripetuti incontri con José Garrut e Rudolf Berliner si strinsero i lacci di una amicizia che si consolidò poco alla volta, si fece intensa e bella per la schiettezza dei sentimenti che la ispirarono ed ebbe, infine, peso determinante nella sua vita di presepista.

Stefanucci inaugura una delle tante mostre da lui tenute a battesimo
Stefanucci inaugura una delle tante mostre da lui tenute a battesimo

Organizzò in Italia decine di memorabili mostre dove riunì Presepi storici di tutti i tempi e di tutta Europa, alcuni antichi di secoli, che riusciva a scovare con pazienti indagini in conventi (specie di clausura), chiese, musei, privati, rimuovendoli dalla sede tra infinte difficoltà e timori.

Invitò équipes di presepisti spagnoli, austriaci, tedeschi, francesi, italiani a costruire Presepi moderni secondo le concezioni estetiche e artistiche della loro Nazione o Regione; e fece conoscere i famosi diorami catalani avviando altresì in Italia una corrente d’acquisto delle bellissime figure orientali dei Castells di Barcellona.

E di ogni Presepio antico, ricercava documenti e notizie d’archivio che erano dati alle stampe sotto forma di cataloghi che oggi costituiscono altrettante monografie. E, nel contempo, allacciava relazioni con presepisti di una trentina di Nazioni di tutto il mondo ed alcune migliaia di Amici del Presepio italiani.

Vivere a Roma, a quotidiano contatto col cuore della cattolicità, gli offriva occasione di avere a portata di mano traduttori in ogni lingua e dialetto del mondo. Attraverso i contatti umani ebbe occasione d’imbattersi in presepisti deboli, tentennanti ed occasionali costruttori; ma ne conobbe anche altri di una tempra presepistica non comune, le perle degli Amici del Presepio, che né difficoltà economiche, né vicende familiari, nazionali o politiche sono riuscite a far deflettere dal loro amore verso la divina mangiatoia. Essi si posero a capo delle nascenti Sezioni ed il loro lavoro era ed è ammirevole.

Fu un autentico bagno presepistico, che si concluse con l’emozionante visita al Paese di Gesù, la Palestina, ed al vicino Egitto, ricco di impensate esperienze. La sua persona acquistò prestigio e popolarità ovunque si recasse, al punto che in Germania lo si definiva il presidente per antonomasia; ed in Spagna lo si appellava con il familiare «don» o addirittura confidenzialmente con «tio» (zio!).
Allora pensò: perché non far scoccare la scintilla, il soffio vivificatore, l’umano calore togliendo le saracinesche che dividono i compartimenti stagni? Perché non far conoscere, tra loro, gli Amici del Presepio di tante Nazioni, farli fraternizzare; unire gli sforzi, far conoscere tecniche, stili per migliorarli nell’interesse dello stesso Presepio?

L’occasione si presentò a Barcellona, nel maggio 1952, durante il Congresso Eucaristico Internazionale. Accanto ai molti spagnoli, vi erano soltanto TRE stranieri in rappresentanza del presepismo europeo: lui, italiano, un sacerdote austriaco, una signora evangelica tedesca. Modestissimo era l’apporto internazionale, ma sufficiente per incominciare. Il piccolo seme di senape, gettato nel solco profondo, avrebbe messo radici, sarebbero spuntati l’arbusto, le foglie, i frutti.

Lui parlò a lungo; anzi tenne una conferenza in lingua castigliana (era la prima volta.., il Signore glielo perdoni specialmente per il modo con cui, allora, pronunciava la difficile «iota»!); tutti furono d’accordo nella fondazione internazionale alla quale venne attribuito il titolo di “Universalis Foederatio Praesepistica”.

Il dialogo, apertosi a Barcellona, tendeva ormai a trasferirsi in un colloquio internazionale, che riprendendo la sublime ed inesauribile tematica del Presepio, doveva ampliarsi in un immenso cerchio che, partendo dal Mare del Nord, avrebbe raggiunto Gibilterra. Non sarebbero certamente mancate amarezze ed incomprensioni, lotte e contraddizioni (e ve ne furono: fu perfino chiamato, ironicamente, idealista. Si temette, a torto, che si volesse imporre uno stile costruttivo a chi già ne aveva un altro tradizionale. Ma fu spiegato: è l’essenza, è l’anima del Presepio che conta.

Cosa importa se nello sfondo verdeggiano le rive del Giordano, le aride alture della Giudea, le onde azzurre del lago di Tiberiade o il Vesuvio, un suk arabo, le Alpi od il proprio villaggio natio? Se il verde strappato al bosco ha l’aspro aroma delle selve nordiche o il delicato profumo mediterraneo? Se i pastori dei Presepi tedeschi hanno le teste gotiche, taglienti, che ricordano i guerrieri medioevali oppure nei Presepi italiani e spagnoli quelle latine, scarne e nervose, dai capelli neri e ricciuti?

Le stelle che si accendono nel cielo e brillano sul capo dei pastori rischiarano ogni paesaggio; ed il fruscio impercettibile del vento, che sospira attraverso le frasche, sembra far udire il palpito dei presepisti di tutto il mondo, accomunati nella stessa passione e che sentono allo stesso modo).

Quale opera, ai suoi inizi, non è avversata e combattuta? Ma alla fine tutti avrebbero dovuto convenire sulla bontà dell’iniziativa, specialmente dopo i contatti dei Congressi Internazionali di Roma, Barcellona, München, Salzburg. Doveva essere rassicurante per tutti che in un’epoca così turbata come quella che attraversiamo, uomini e donne di tutti i Paesi, per uno stesso ideale, elevassero su piano internazionale un bastione religioso, artistico, culturale, veramente solido ed organizzato dove lo spirito creatore della vecchia Europa, così piena di contrasti che stava per lanciare i missili verso gli spazi eterei, avesse ritrovato una nuova splendente giovinezza senza fine.

Il portone di ingresso del Museo
Il portone di ingresso del Museo

Il figliuolo della sartina romagnola e del sellaio romano, dalle modestissime origini, che amava la vita semplice ed umile, poteva adesso sostare ed osservare i frutti del suo lavoro. Fece quello che potè. Certo ben poco con i propri limitatissimi mezzi, certo non bene. Ma sicuramente con amore, con grande devoto amore, verso il Presepio.

Solo un’angoscia attanagliava il suo cuore: che tutto il materiale preziosissimo, riunito in decenni di appassionate ricerche, tutta l’organizzazione non si volatilizzasse con la sua morte. Attendeva fiducioso che qualcuno offrisse una sede, aveva bussato ripetutamente a tante porte senza potervi riuscire; specialmente che qualche giovane, animato di buona volontà, continuasse la strada tracciata dedicando tutta la sua vita al presepismo.

Forse qualcuno poteva credere che si divertisse a ripetere sovente queste cose: quanta pena, invece, gli costava scriverle. Ma la verità, breve e secca, era questa e soltanto questa.

Ora si accingeva a licenziare alle stampe queste pagine di ricordi accompagnandole con l’arditissimo voto che esse, per chi avesse avuta la pazienza di leggerle, potessero costituire un invito ed una edificante rivelazione: l’invito al presepismo e la stupenda rivelazione e l’immensa gioia della conoscenza profonda, dettagliata, completa di un sole risplendente che ha riscaldato e riscalderà perennemente il mondo, il Presepio!

Ah, mi avvedo adesso, Amico lettore, che ho dimenticato di dirti una cosa: chi è LUI. Ma questo lo avranno immaginato tutti.

Angelo Stefanucci, lì 1965